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L'orrore nei lager sovietici
Sul romanzo “il Cavallo Rosso” di Eugenio Corti
Umberto De Pace


“Dal punto di vista strettamente storico mi hanno comunque colpito alcuni fatti, dei quali non ero a conoscenza e che non mancherò di approfondire: gli agghiaccianti atti di cannibalismo descritti nel gulag sovietico di Crinovaia, o sui treni per Cazan, dei quali si resero protagonisti i soldati italiani prigionieri; la crocifissione delle donne tedesche sulle porte dei loro villaggi ad opera delle truppe sovietiche nel corso dell'avanzata finale; le apposite sezioni dei gulag sovietici dedicate ai bambini spagnoli; le uccisioni, nei giorni dopo la Liberazione, di diverse persone negli alti forni della Breda a Sesto San Giovanni.” – partendo da quanto scritto nella mia lettera, riporto qui di seguito gli stralci del romanzo che riportano tali avvenimenti (edizione ARES marzo 2001 pag. 1274).

arcipelago gulagf
da pag. 587 (Michele Tintori è prigioniero all'interno del lager sovietico di Crinovàia dove conosce il cappellano del battaglione Saluzzo, Don Turla, bergamasco. Siamo nei primi mesi del 1943)
Improvvisamente la porta della scuderia si spalancò e, simile a un forsennato, irruppe nel corridoio un alpino: « Padre! Dov'è padre Turla? » vociferava.
« Eccomi » gli rispose il cappellano « sono qui. »
II soldato corse al box e sì afferrò alle sbarre, appariva emaciatissimo: « Venite padre » urlò: « venite subito. Vogliono mangiare mio cugino. »
II cappellano lo guardò un istante in silenzio, poi si affrettò a reinfilarsi gli abiti: « Vengo » disse.
« Ti accompagno » fece Michele al prete, alzandosi a sua volta.
Seguirono in gran fretta l'alpino. « È la vista del sangue che gli fa perdere la testa, sono come impazziti » riferiva quello in dialetto bresciano: « È stata una guardia a sparargli a mio cugino, maledetta »; raccontava a pezzi e bocconi: « Mentre rientravamo dal trasporto dei morti lui ha visto della porcheria sull'altro lato della strada: 'Le patate' ha detto 'ci sono dei pezzi di patata...' sono giorni che vede patate dappertutto; io non ho fatto in tempo a trattenerlo, appena è uscito dalla fila la guardia gli ha sparato, la troia, gli ha quasi stroncata una gamba. L'abbiamo riportato sopra il carro, Ma con tutto quel sangue... Oh, padre! »
« Dove si trova adesso? »
« È al chiuso dentro la stalla. Lo difendono due paesani della vai Camonica. »
« E quanti sono quelli che lo vogliono... mangiare? »
« Quattro, sono in quattro. »
Entrarono nella più vicina scuderia, suddivisa non in box ma in stalle chiuse: nel corridoio una striscia di sangue fresco guidava a quella dov'era il ferito. Di fronte alla cui porta sgangherata quattro soldati si davano da fare con accanimento: cercavano d'aprirla usando un legno appuntito come leva.
« Eccoli, li vedete? » sbraitò l'alpino.
Quelli non badarono ai nuovi arrivati; sembravano non vedere, non sentire, non pensare che a una cosa: al sangue rosso e alla carne e ai visceri freschi disponibili al di là della porta.
Correndo verso di loro il sottotenente gridò: « Ehi voi, cosa fate? Siete diventati matti? Fermi, fermi. »
« Fermatevi » ripetè anche don Turla, accorrendo a sua volta.
I due che, dall'altra parte della porta, si davano da fare per impedirne l'apertura, sembravano, alle voci, a loro volta mezzo invasati.
« Ragazzi, ascoltatemi » disse il prete rivolgendosi ai quattro con gravità: « Vi rendete conto di quello che volete fare? Vorreste uccidere un uomo, un disgraziato come voi, per bergli il sangue. È una cosa mostruosa, cercate di riflettere. »
« Se io ammazzassi uno di voi, eh? » gridò l'alpino: « e vi giuro che se voi... io... » II prete lo fermò con un gesto. « Calma » gli disse.
« Sì, calma » ripetè Michele.
L'alpino emaciato abbassò le mani che aveva alzato a mo' d'artigli. Sui quattro invasati ad ogni modo niente sembrava far presa. Continuavano ad accanirsi quasi con metodo, « Dai » si dicevano l'un l'altro stronfiando: « Dai, spingi di punta. - Qui, il legno qui. - Dai. Forza. »
Padre Turla, rannicchiatosi, si cacciò in mezzo a loro e gli emerse di fronte, con la schiena contro la porta. Michele mise la destra sul bastone che quelli manovravano, pronto a stringere: per lo meno non gli avrebbe permesso d'usarlo come arma. « Cerchiamo di ragionare un po' » disse con voce faticosamente calma il cappellano.
I quattro a questo punto si ritrovarono impediti. Uno aveva la faccia quasi contro quella del prete: sembrò stesse per azzannarlo in viso: « Aaah, cosa vuoi tu? » barbugliò, fissandolo con occhi offuscati.
« Voglio parlare con te » gli rispose don Turla: « sono un cappellano e sono venuto qui per parlare con te. »
« Un cappellano? » L'altro aprì e chiuse più volte gli occhi: « Un co... cooosa? » Sembrava non afferrare, intanto oscillava percettibilmente, indebolito com'era dalla fame.
« Sì, un cappellano » ripeté padre Turla. « Non volete parlare col cappellano, ragazzi? »
Non gli risposero, però adesso lo fissavano tutt'e quattro coi loro occhi straniti.
.« La vostra casa in Italia » disse il prete. « Vostra madre. Non ci pensate? » SÌ rivolse a quello che gli stava di faccia: « Tua madre. Dove sarà tua madre in questo momento? Cosa starà facendo? Eh, di? Tua madre. Tua madre. »
Quello, che seguitava a guardarlo col ceffo proteso, si ritrasse un respirare con affanno: « Mia madre... » bofonchiò.
Anche negli altri pareva molto lentamente accendersi un barlume di riflessione.
I due che al di là della porta la tenevano bloccata, ogni tanto la scuotevano ancora, seguitando a parlare tra loro con furore, non capivano ciò che stava succedendo di qua.
II cappellano guardava or l'uno or l'altro dei quattro, chiedendosi se stessero tornando realmente all'uso della ragione: gli stavano ancora tutt'e quattro davanti, ma non più aggressivi.
Riprese a parlare, rivolgendosi sempre direttamente ora all'uno ora all'altro: gli parlava del suo paese, della casa lontana, di sua madre. Poi parlò di Dio, dell'empietà - davanti a lui - di ciò che essi, travolti dall'orribile fame, erano stati sul punto di fare. Si sentiva sfinito (egli pure dalla fame, nonché dal dolore reumatico al braccio, e ora anche da questo sforzo emotivo); uno dei quattro, forse meno incolto degli altri, fini col rendersene conto, gli prese a un tratto la destra, s'inginocchiò, e gliela baciò.
Il cappellano si chinò ad abbracciarlo; gli altri tre fecero un passo o un mezzo passo indietro. «Alzati » disse il prete all'uomo inginocchiato « alzati »; e si passò una mano sul viso rigato di lacrime.
A questo punto l'alpino batté con forza sulla porta, chiamando per nome quelli che stavano dall'altra parte: « Aprite, è finita » diceva nel dialetto della val Camonica: « non c'è più pericolo. Aprite che c'è qui il cappellano. » Gli ci volle un certo tempo per fargliela capire.
Finalmente la porta si schiuse: preceduti dall'alpino, padre Turla e Michele poterono entrare; gli altri quattro rimasero, intontiti e ancora mezzo stralunati, sul limitare.

da pag. 591(sempre all'interno del lager sovietico di Crinovània)
Alcuni giorni più tardi, vincendo con immensa fatica la propria ripugnanza, Michele si decise a riprendere l'esplorazione del lager. Uscito dalla zona degli ufficiali s'avviò a capo chino verso un settore nel quale, secondo gli era stato comunicato dai colleghi del box, i russi non avevano mai, o quasi mai, effettuate distribuzioni di viveri: « E là c'è gente arrivata anche dieci o quindici giorni prima di noi ». Se le cose stavano davvero così, si chiedeva il sottotenente, come potevano quegli sventurati essere ancora in vita?
Entrò a caso in una delle scuderie di quel settore, esternamente uguale alle altre: l'interno, semibuio, non era com'egli s'aspettava suddiviso in box o stalle, ma formava un unico lunghissimo stanzone. Nel quale, con sua sorpresa, i prigionieri (da tre a cinquecento, secondo una valutazione molto incerta da lui fatta in seguito) stavano tutti seduti per terra, in file quasi ordinate. Una prima fila sedeva contro una delle pareti maggiori; davanti a questa ne sedeva una seconda con le schiene in qualche modo appoggiate alla prima; venivano poi altre file, ciascuna appoggiata a quella che le stava a tergo. Tra la distesa dei soldati - tutti italiani - e la parete di fronte, rimaneva un passaggio, in cui il sottotenente si addentrò, fendendo un odore dì putrefazione addirittura demenziale.
Fin dai primi passi ebbe l'impressione che, nel relativo silenzio dell'ambiente, tutti o quasi i soldati davanti ai quali egli passava, lo guardassero. Mentre procedeva, via via più incerto, cominciò a sua
volta a esplorare con gli occhi quelle file dì visi stremati, se ce ne fosse qualcuno a lui noto; come calamitati molti di quei ragazzi accompagnavano il suo passaggio col lento movimento delle loro teste. Chissà cosa stavano farneticando! Non tutti però - egli si accorse - lo guardavano realmente: infatti, sebbene avessero gli occhi aperti, non pochi di loro erano morti; c'erano anche dei morti con gli occhi chiusi, e più d'uno con la bocca spalancata. Quanti erano i morti? L'ufficiale cercò dì darsi una risposta: forse addirittura un terzo dei seduti sul pavimento erano cadaveri. Quando se ne rese conto con chiarezza si arrestò: avrebbe voluto parlare, ma la lingua gli s'era come paralizzata.
Da contro la parete libera si alzò allora a fatica in ginocchio e poi in piedi, e venne a passi strascicati verso di luì, uno senza copricapo, con alle braccia gradi da sergente: teneva gli occhi chiusi, li apriva solo impercettibilmente ogni tanto. « Sta per arrivare il pane, eh? » disse quando fu davanti all'ufficiale.
« II... Cosa? » balbettò Michele.
« II pane. Lo stiamo aspettando, perché sappiamo che deve arrivare.»
Anziché rispondergli l'ufficiale lo squadrò per qualche istante: « Tu... chi sei? » gli domandò, parlando a fatica.
« Sergente B., del Quinto alpini. Sono il capo camerata. »
« Come mai nella tua camerata... stanno tutti seduti in fila, a questo modo? »
« Per fare ordine. È stato il commissario italiano, ieri, a dirci che se la smettiamo col cannibalismo e facciamo ordine, i russi ci daranno da mangiare. E io li ho persuasi tutti, vedete? Abbiamo portato fuori i morti, e quelli... » fece con le due mani il gesto di aprirsi il petto « lì abbiamo fatti sparire ».
« Fatti sparire? »
L'altro annui, ammiccando con un povero ghigno, poi indicò con la testa dagli occhi chiusi una sorta di fenditura nel soffitto, da cui penzolavano quattro gambe stecchite.
« Avete nascosto là sopra quelli aperti? »
Il sergente fece segno di sì: « Così adesso loro devono darci da mangiare, »
« II commissario italiano non è stato qui ieri, ma tre giorni fa » mormorò, tuttora stranito, l'ufficiale,
« Cosa? » chiese l'altro, che non aveva capito.
L'ufficiale non ripeté la frase, rendendosi a un tratto conto che avrebbe anche potuto precipitare quei disgraziati nella disperazione.
« Erano tutti vivi quando li hai fatti sedere a questo modo? »
II sergente dagli occhi semichiusi fece segno dì sì.
"Dunque in appena tre giorni ne è morta una terza parte" valutò il sottotenente. Si sentì invadere da un incontenibile terrore: "Qui non si salva più nessuno... Moriamo tutti" si disse: "Per forza. Tutti, tutti! " Non gli riusciva di pensare ad altro. Fece un cenno che voleva essere di saluto al sergente e, senza più tentare una parola, tornò indietro verso la porta; mentre camminava nel fetore mozza-respiro ricominciarono a seguirlo i muti sguardi dei soldati seduti sul pavimento.
Una volta all'aperto l'ufficiale raggiunse con affanno la sua scuderia, e andò ad accucciarsi in silenzio nel box tra gli altri della squadra.

da pag. 917 (Michele Tintori sempre prigioniero, siamo alla fine del 1943, viene trasferito a Susdal in uno dei lager per prigionieri di guerra, visitato in quel periodo da Paolo Robotti, commissario politico italiano del PCI, cognato del segretario del partito comunista italiano Togliatti)
Prima che il commissario Robotti fosse di ritorno a Susdal, vi giunse uno sparuto branchetto di soldati italiani provenienti dalla città di Cazan sul Volga.
Un sottotenente della squadra di Michele - un tipo nervoso, sempre alla ricerca di notizie - dopo avere parlato con alcuni di loro si ritirò terreo in volto nella cella. Era l'ora del rancio: senza una parola il giovane ufficiale si sdraiò al suo posto e si coprì per intero con la coperta.
« Cos'hai? Cosa ti prende? » gli chiese meravigliato il suo vicino di posto.
Quello non rispose.
« Ehi » insisté l'altro, seduto contro la parete al suo fianco con un barattolo in una mano e un rozzo cucchiaio di legno nell'altra (il rancio veniva tuttora ritirato in recipienti di fortuna): « Cos'hai? Forza,
sputa fuori. »
Non ottenendo risposta infilò il cucchiaio nel barattolo, e con la mano libera alzò la coperta fino a scoprire il viso del giacente: « T'ho chiesto cos'hai. »
« Ho » sbuffò quello « che la merda non finirà più », e si tirò dì nuovo la coperta sulla testa.
Si era fatto silenzio: tutti nel piccolo locale guardavano alla sagoma sotto la coperta.
« Cosa t'è successo, dì? » domandò nel silenzio don Turla: « Cerca per favore di non tenerci in sospeso. »
II sottotenente non rispondeva.
« Allora? »
Finalmente quello scoprì il viso, era con evidenza esasperato: « Non potreste lasciarmi in pace quanti siete, eh? »
Nessuno pronunciò verbo: coi loro barattoli e gavette in mano attendevano che si spiegasse.
« Parlate con quelli arrivati stamattina da Cazan » disse il sottotenente.
« Io ho parlato con due del Cinquantaduesimo artiglieria che... Ma va » s'interruppe.
« Come 'ma va' » esclamò don Turla: « Continua, spiegati, »
« Cazan non è lontana da qui » fece notare con preoccupazione uno dei presenti. E volgendosi al sottotenente: « Vuoi andare avanti? »
«
Là arrivano ogni giorno treni dalla Romania » disse finalmente quello « e... » s'interruppe di nuovo.
« La Romania i russi la stanno 'liberando' adesso, cosi diceva Robotti » ricordò uno dei presenti. «Beh, cosa c'è su quei treni? Donne e bambini? »
«
Sì, certo » rispose il sottotenente: « civili e militari ammucchiati nei carri, come al solito, ma non è questo... » Sembrò passare a un altro filo di pensieri: « Verrà un giorno in cui anche dall'Italia arriveranno qui treni simili. Ormai non possiamo più far niente per impedirlo. Non c'è più niente da fare. »
« Allora vuoi andare avanti? » chiese con impazienza don Turla.
« Quei treni sono pieni di cadaveri: li fanno viaggiare con una tale lentezza che in certi carri non rimane in vita nessuno. E i morti sono quasi tutti aperti, senza più il fegato o... o... Beh, Io sapete. Un treno dopo l'altro, tutti a quel modo. In certi carri ci sono dei poveracci ancora vivi, ma ridotti come pazzi, o... »
Tutti tacevano, estenuati da quest'altra orrenda notizia.
« Quelli del Cinquantaduesimo da chi l'hanno saputo? » chiese un tenente anziano, che quando parlava usava coprirsi la bocca con una mano perché aveva perso molti denti.
« Erano ricoverati all'ospedale di Cazan, ma quasi ogni giorno li buttavano giù dai letti e li portavano alla stazione ad aiutare le squadre di servizio tedesche, che non ce la fanno a scaricare tutti quei morti. »
« Ma... e lo Stalin pricàs? Allora per i romeni non vale lo Stalin pricàs? » domandò costernato uno, guardando in faccia gli altri.
« In Romania i comunisti non hanno più bisogno di farsi propaganda » spiegò con durezza Michele: « Là comandano loro. »
« Adesso siete contenti? » esclamò con rabbia il sottotenente, e sbuffò: « Andate tutti all'inferno. » Sì tirò ancora una volta la coperta sulla testa, stavolta definitivamente.
S'era fatto silenzio.
« E il tuo Dio permette tutte queste cose? » chiese con amarezza e insieme acidità l'ufficiale senza denti al cappellano.
« Non bestemmiare, tu » mormorò padre Turla. Levò in silenzio gli occhi al dipinto che gli stava sopra la testa: da 11 sotto non poteva vederlo che di scorcio, ciononostante gli parve che gli occhi fissi del Cristo ricambiassero dolorosamente il suo sguardo. Dio aveva fatto gli uomini liberi, ecco il punto. Tutto lo scandalo stava qui. Adesso non poteva andare contro la loro libertà, non poteva impedirgli di fare ciò che volevano. Non gli era rimasto che morire insieme con quanti venivano uccisi, crocifisso con loro... Padre Turla non disse una parola.


da pag. 925 (fuori Susdal nei pressi di un colcoz sopranominato “della colonia spagnola” Michele Tintori incontra Tito Valli originario di Nomana )
« Chi sono quelli? » domandò Tito.
« Sono gli spagnoli. Ne hai sentito parlare, no? »
« Io no. Ma sono dei bambini... Com'è che sono prigionieri? »
« Sono di quei bambini che i rossi hanno portato via quando han dovuto ritirarsi dalla Spagna: è successo verso la fine della guerra, nel 38-39. In Italia l'avrai sentito dire di questi bambini. »
« Ah, sì, qualcosa infatti. »
« Ce n'è diversi che adesso non ricordano più la loro madre e neanche la Spagna. Non si può nemmeno dire che parlino veramente lo spagnolo, ma una mescolanza di spagnolo e russo. L'intenzione dei rossi era di tirarli su nel comunismo, per poi utilizzarli in Spagna come propagandisti. E forse, chissà, lo faranno anche, ma fino a oggi si sono limitati a tirarli su negli stracci, senza insegnargli niente o quasi. Io li ho incontrati al lavoro nel colcoz e ci ho parlato. »
« Ma » disse Tito « non capisco bene. Sono orfani dei rossi, oppure sono figli di... altri; voglio dire, sono stati rubati? »
« Questo gliel'ho domandato anch'io, ma i ragazzi non lo sanno. Da come li tengono sequestrati sembrerebbero figli di anticomunisti: però ci sono forse anche degli orfani di comunisti, chissà. »
« Che cosa! » mormorò il Tito Valli con spossatezza, e ripeté: « Che cosa! »
« SI, poveri ragazzi » convenne Michele.
« Confites, senor » gridò più forte il ragazzo, vedendo che i due militari invece di prestargli attenzione conversavano tra loro; anche gli altri allora si misero a urlare: « Confites, confites! »
« Ehi, muchachos » disse Michele levandosi in piedi, e dirigendosi un po' preoccupato verso il gruppo: « non gridate così. Ticho, ticho (niente chiasso: in russo). »
Si fermò davanti alla rete metallica: « Vedete no? Questi qui non sono confetti, no estàn confites. » Tornò al russo: « È zernò (frumento). L'ho fregato al colcoz: zabràl (rubare) » fece il gesto con la mano « en el colcoz: anche voi ne zabrate quando potete, non è vero? »
I ragazzi, raggruppati al dilà della rete, erano ammutoliti e lo guardavano con gli occhi neri pieni di delusione. Michele provò una stretta al cuore: non aveva nulla., proprio nulla da offrire a degli innocenti bestialmente violentati... « No estàn confites » ripetè sorridendo un po' melenso, e fece scorrere il grano da una mano all'altra.
« No san confites, no » ammise uno dei ragazzi, e tentennò la testa: « No existen confites aqui en Rossìa. »
Michele approvò: « Ecco, giusto. »
II ragazzo, che era lacero come un mendicante, ma aveva un bel viso fiero, esclamò: « Este, senor, es el pais de la merda. »
Dopo di che si staccò dalla recinzione e s'incamminò al pari degli altri verso le due baracche. Michele tornò da Tito che, volgendo all'indietro la sua faccia gialla, gonfia, da malato, aveva seguita ogni cosa attentamente. « Dei bambini rubati » disse: « Io, quando in Italia la radio lo diceva, non ci credevo. »

da pag. 1070 (siamo nel corso della campagna elettorale del 1948 )
Michele era sempre col pensiero ai bambini greci: fino a quel momento nessuna notizia era trapelata, ma effettivamente in quei giorni i comunisti in ripiegamento ne stavano portando via a migliaia, dopo averli razziati qua e là nei paesi. Quei bambini però – di cui alcuni molto piccoli - non sarebbero arrivati in Russia come quelli spagnoli: sarebbe intervenuta in tempo la lite tra Tito e Stalin, in seguito alla quale il governo greco avrebbe potuto recuperarli dalla
Jugoslavia, con una trattativa diplomatica di cui la stampa di tutto il mondo avrebbe parlato.

da pag. 872 (subito dopo la Liberazione )
Della donna non si ebbero notizie per mesi, fino a quando sì diffuse a Incastigo, e di là rimbalzò al Raperio e a Nomana, la voce che la poveretta era stata dopo la cattura portata in una fabbrica di Sesto dove già si trovava suo marito, e che prima di mezzogiorno dei due 'non era rimasto più niente'. In che modo di due coniugi non fosse rimasto più niente la voce non specificava; al tempo in cui si diffuse però tutti sapevano che a Sesto nei giorni della liberazione parecchi corpi umani erano stati gettati negli altiforni.

Pur respingendo il pensiero integralista e reazionario che permea il romanzo, ritengo importante conoscere e approfondire tutti gli aspetti, anche i più tragici, della storia del nostro paese, e non solo.
Se la “crocifissione” delle donne tedesche sembra riprendere quanto la propaganda nazista diffondeva in quegli anni o le “diverse” persone gettate negli alti forni della Breda, quella fascista, l'orrore vissuto dalle truppe italiane prigioniere nei lager sovietici merita sicuramente una maggiore attenzione.
Non so nulla sui bambini spagnoli e greci, ma so che quest'anno è uscito un libro intitolato “Children of the Gulag” (Yale University Press) di Chaty Frierson e del curatore della raccolta originale “Deti Gulaga 1918-1956” (pubblicata a Mosca nel 2002: i bambini del Gulag) Semyon Vilensky, nel quale sono raccolti documenti, lettere, diari, testimonianze che portano alla luce la tragedia di milioni di orfani, bambini poveri, delinquenti o figli della nomenklatura caduti in disgrazia, rinchiusi negli orfanotrofi sovietici, in realtà veri e propri lager.

alla prossima

Umberto De Pace

Gli articoli precedenti:
Il Cavallo Rosso - Il romanzo di Eugenio Corti
Il militante manicheo - Sul romanzo di Eugenio Corti
Il fascismo “sostenibile” - Sul romanzo di Eugenio Corti



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  30 ottobre 2010